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Capo o collega rompiscatole? Io ci lavoro bene!

Spesso le persone che incontriamo nelle aziende ci raccontano di avere la percezione che doti come la comprensione e la disponibilità siano poco apprezzate se non addirittura penalizzanti ai fini della carriera.

Una ricerca compiuta negli Usa ha scoperto che chi sul lavoro è duro e arrogante arriva in media a percepire stipendi del 18% superiori rispetto a chi invece è gentile e accomodante. Altre ricerche affermano che un capo attento e disponibile è in genere molto più apprezzato e stimato dai suoi collaboratori, i quali cercano sostanzialmente una buona relazione con lui come base per essere motivati nel lavoro e per crescere.

Dobbiamo comunque distinguere tra colleghi e capi antipatici per gli atteggiamenti che tengono dal punto di vista del ruolo professionale (antipatie che in un certo senso nascono da atteggiamenti ostili o aggressivi più o meno deliberati) e invece i feeling spiacevoli che sembrano emanare certe persone anche quando non stanno comunicando direttamente con noi o addirittura si stanno facendo i fatti loro.

In entrambi i casi il risultato in termini di antipatia è prodotto da numerosi fattori:

  • fattori di tipo personale: aspetto fisico, gestualità, modo di relazionarsi, gusti in fatto di moda, sport, politica, religione. Anche un’eccessiva avvenenza può suscitare antipatia, così come una persona troppo invadente o troppo riservata, troppo gentile o sgarbata. che ha troppo successo, o è addirittura…troppo simpatica agli altri. Intanto teniamo a sottolineare che siamo noi che proviamo antipatia per lei, non tanto che lei è antipatica; lei non ci piace e a questo reagiamo con un senso di avversione e desiderio di distanza. Sui luoghi di lavoro le antipatie sono rese più difficili da gestire, proprio perché la nostra voglia di distanza non può essere accontentata: il nostro capo o il nostro collega sono accanto a noi molte ore al giorno.

  • fattori di relazione legati al ruolo: se il capo crede o vuole essere colui che deve alzare la voce, scompaginare il lavoro dei collaboratori, stringere le scadenze a prescindere, mostrare chi comanda, sciorinare ripetutamente i suoi titoli di studio, controllare continuamente, evidenziare solo errori e mancanze senza spiegare o coinvolgere e se il collega crede o vuole essere colui che deve creare piccole difficoltà agli altri per emergere come il più bravo, sgomitare per arrivare primo, isolarsi e ignorare contesto e colleghi, svolgere i suoi incarichi impegnandosi ai minimi storici o coinvolgere per scaricarli agli altri…ecco una doppia porzione di antipatia servita su un piatto d’argento.

Esistono rimedi? Certo, anche molti!

Alcuni riguardano l’azienda come organizzazione: più è funzionale, meno numerosi sono certi effetti sgraditi come quelli degli esempi. E qui è l’azienda che si deve dare una direzione efficace, di solito con gli opportuni interventi a supporto.

Altri riguardano i capi e i colleghi come professionisti. Se per esempio reputiamo caratteristica del nostro ruolo professionale di capo comandare, intervenire sottolineando il ruolo subalterno dei collaboratori e i loro errori, non fidarsi, generare competizione, distribuire privilegi, saremo convinti di svolgere bene il nostro compito proprio perché agiamo così. Non è un comportamento che agiamo contro il nostro collaboratore, bensì a favore del ruolo che ricopriamo. Naturalmente senza chiederci quali siano gli effetti e cosa ne sarà dei collaboratori e dell’organizzazione a lungo termine. Anche per questi capi e collaboratori esistono interventi opportuni e direzioni efficaci.

Questi aspetti hanno in comune una caratteristica: non dipendono da noi, che siamo il collaboratore-collega.

Cambiare luogo di lavoro non è mai facile e c’è il rischio di cadere dalla padella alla brace.

Occorre cercare nella direzione di ciò che sta nella nostra sfera di decisione e operatività. Questo è ciò che fa, a volte senza rendersene conto, chi riesce a lavorare bene con capi e colleghi antipatici.

Possono essere efficaci i contributi delle neuroscienze, della comunicazione e della Programmazione Neurolinguistica, che su questo aspetto ci offrono strumenti interessanti. Il primo arriva dalla considerazione che l’antipatia non è una qualità di chi la suscita. Nessuno è antipatico, da solo e chiuso in camera sua. Non esiste alcun gene dell’antipatia: è solo un atteggiamento, un modo di porsi con gli altri. Al quale noi reagiamo provando sensazioni ed emozioni fastidiose. Questo è il punto: come in tutte le qualità relazionali, per generare antipatia occorre essere almeno in due.

E come sempre in questi casi, credere che il problema sia solo “dell’altro” ci porta in un vicolo cieco e ci impedisce di trovare soluzioni. L’altro dovrebbe cambiare: magari sarebbe proprio utile, ma se l’altro non cambia perché non vuole, non crede, non sa, non può, non riesce?

Lavorare meglio in tre mosse

La prima mossa è rendersi conto che non esiste un carnefice senza vittima, un re senza sudditi, una moglie senza un marito, un ricco senza un povero. Quindi le prime domande da porsi sono: “Come contribuisco io nella nostra relazione, per avere l’antipatia come risultato? Cosa faccio io per rendermi antipatica questa persona? In che modo le consento di essere antipatica? Quali pensieri mi faccio?

Che preconcetti metto in campo? Qual è il mio modo di comunicare con lei?”. Il fatto è che gran parte di ciò che comunichiamo all’altro non passa da quanto diciamo, ma dal tono di voce, dagli atteggiamenti fisici, dalla gestualità e dalle espressioni facciali. Anche il fatto di stare zitti o di non partecipare a una riunione comunica qualcosa. Le ricerche dimostrano che tutti questi fattori non verbali passano oltre il 90% della comunicazione con l’altro. E noi di solito non ne siamo quasi per niente consapevoli: li notiamo magari negli altri, ma non possiamo controllare i nostri.

Il nostro modo di porci influenza per primi noi stessi, orientandoci più facilmente verso l’antipatia: in sintesi, se qualcuno ci suscita avversione, siamo molto efficaci nell’esprimerlo senza dirglielo espressamente a parole e a volte senza neppure avere l’intenzione di farlo. E l’altro inconsciamente farà del suo meglio per ricambiarci. Nessuno “ha cominciato per primo” perché entrambi creiamo questa relazione che non ci piace.

E poi, siamo sicuri che anche l’altro non provi le stesse emozioni nei nostri confronti e non abbia le stesse difficoltà con noi?

Pare che queste classificazioni –simpatico, antipatico, affidabile, sospetto, amico, arrogante e via dicendo- vengano stabilite già dal primo incontro in un tempo di circa venti secondi.

E’ il cosiddetto imprinting: non c’è una seconda volta per fare buona impressione la prima volta.

E la seconda mossa? Accettare che, comunque si manifesti l’altro, ha i suoi buoni motivi per farlo, non lo fa “contro di noi”. Potrà averlo imparato in famiglia, sarà diventato così in seguito a esperienze di vita, forse penserà che è giusto agire in quel modo per ottenere buoni risultati. Nell’esempio più sopra riferito al capo, se ci mettiamo effettivamente nei suoi panni, possiamo magari scoprire che non si sente adeguato al ruolo o che vuole dimostrare qualcosa o che sta facendo il meglio che può, oppure che possiede informazioni sulla situazione aziendale che noi non conosciamo e che gli consentono una visione più ampia/diversa dalla nostra.

Questo non per trovare giustificazioni o per essere preda di inutili attacchi di buonismo, ma per avere strumenti che ci permettano di creare relazioni più mature ed efficaci e di lavorare con più serenità.

Consideriamo gli altri “terreno sconosciuto da esplorare” con curiosità, spirito d’avventura e interesse per la scoperta invece di giudicarli in base ai nostri standard. Come ci sentiamo quando qualcuno ci valuta in base ai suoi parametri, senza tenere conto della nostra individualità e sensibilità?

Meglio imparare a relazionarci con “lui” così com’è, senza cercare di “cambiarlo” o di “fargli capire”.

In fin dei conti non è che dobbiamo legarci indissolubilmente o diventare i suoi migliori amici: ci basta avere un proficuo scambio e un sereno contesto di lavoro. Già il fatto di accettarlo com’è può produrre cambiamenti significativi da entrambe le parti. Infatti nel momento in cui noi cambiamo il nostro atteggiamento e il nostro comportamento nei suoi confronti, lui avrà a che fare con un “noi” diverso, verso il quale non potrà più agire nello stesso modo: sarà “costretto” a cambiare!

Terza mossa: cogliere l’antipatico di sorpresa. Niente sarà per lui più spiazzante di una disinteressata manifestazione di simpatia o attenzione. Questa è una “rottura di schema”, perfetta per rispondere a una “rottura di scatole”.

Per funzionare, la rottura di schema deve essere disinteressata, sincera e imprevedibile per l’altro. Un appoggio professionale o un augurio che non si aspetta, una gentilezza impensata, una confidenza mai fatta prima, il fatto di aspettarlo in ascensore, una richiesta di aiuto in un determinato lavoro, a volte anche un saluto in cui non solo la parola, ma anche la voce, l’espressione del viso e l’atteggiamento augurano veramente “buongiorno!”. Le possibilità sono davvero tante e a basso costo.

L’importante è che siano scelte e messe in atto con consapevolezza, con il piacere del cambiamento e il più assoluto disinteresse verso la possibilità di essere ricambiati. Occorre agire semplicemente con il gusto di fare qualcosa di nuovo e fuori dal solito copione, registrando le reazioni dell’altro con un atteggiamento di amichevole curiosità, senza aspettative particolari. E soprattutto persistere: le aspettative reciproche (so già che lui avrà il solito atteggiamento antipatico!) sono come abitudini tenaci, spesso ci vuole un po’ di tempo per riconfigurarle.

Le esperienze di chi ci ha provato dimostrano che agendo in questo modo si ottengono diversi benefici. Anzitutto un rapido miglioramento della consapevolezza e dell’autostima, perché si diventa soggetti attivi e positivi, a prescindere dal risultato nell’altro, e poi migliorano notevolmente il nostro umore e la nostra centratura.

E infine ciò che si riscontra è che il collega prima antipatico diventa, se non simpatico, quanto meno tollerabile e – in oltre il 70% dei casi- persino più gradevole fisicamente. Provare per credere.

“Simpatia” significa sentire le stesse emozioni, risuonare con l’altra persona.

Le emozioni sono molto contagiose e tutti noi riceviamo e trasmettiamo questi influssi anche senza volerlo e senza accorgercene. Da anni le neuroscienze ricercano e studiano in questo campo. Grazie a una serie di strumenti e modelli della PNL, possiamo imparare a relazionarci meglio con le emozioni altrui e facilitarne almeno un po’ il cambiamento nelle relazioni e nella comunicazione.

Per ottenere questi risultati occorre sempre partire dalla capacità di gestire le proprie emozioni. Non si tratta di imbrigliarle, controllarle, mascherarle o nasconderle, ma di migliorare e ampliare il nostro repertorio emotivo, costruendoci una competenza emotiva che sarà alla base delle nostre relazioni piane e facili, delle nostre performances efficaci, del nostro apprendimento duraturo, dei nostri comportamenti funzionali, in pratica del raggiungimento di obiettivi a cui teniamo e che ci danno la soddisfazione che ci interessa.

Il seminario “Una personale competenza emotiva” costituisce un interessante approccio di due giorni a questi temi e il “Master in Programmazione Neurolinguistica e Comunicazione” li studia e li pratica.

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