IL MANAGER A PUNTATE || 2
Il manager e le competenze personali
Abbiamo davanti a noi numerosi CV. Una parte cospicua di ciascuno è dedicata alle esperienze di studio, basilari per alcuni e molto ricche per altri, ritenute a volte così importanti, da indicare il voto di diploma o di laurea anche a distanza di 15 anni dall’averli conseguiti.
Una parte ancora più cospicua è dedicata alle esperienze di lavoro, indicando ruoli, mansioni, contesti, tipo di attività svolta.
Sono queste due parti che di solito vengono prese in seria considerazione e valutate.
Marginalmente i CV riportano “spiccata attitudine al contatto umano”, “buone capacità di relazione”, “buona comunicazione con le persone”, “facilità a lavorare in gruppo”.
Sembrano “doti personali”, ricevute non si sa come e acquisite non si sa quando.
Da tempo ormai si parla dell’importanza delle competenze relazionali e comunicative, come elementi fondamentali da aggiungere alle competenze tecniche specifiche del proprio lavoro. La nuova misura di eccellenza infatti considera le abilità cognitive e l’expertise tecnico un punto di partenza per svolgere il proprio lavoro: sono le competenze relazionali, comunicative e collaborative ad avere un ruolo più importante e a fare la differenza in ogni organizzazione. Di tutti questi aspetti nei CV se ne trova solo qualche traccia.
Sono invece proprio le competenze relazionali e comunicative che consentono di svolgere appieno il proprio lavoro e di integrarsi nei gruppi che costituiscono il nostro riferimento: nessuno lavora più completamente da solo, senza condividere con altri almeno qualche parte del processo.
Non possiamo parlare di queste abilità e di quanto siano utili e importanti, per poi agire con individualismo concentrandoci sui nostri interessi; così facendo ci priviamo della solidità di essere parte di una società di eguali e di poter collaborare in un clima sereno e produttivo. Alla fine il risultato è che i contatti per cui si vanta la “spiccata attitudine” vengono gestiti tramite una serie di “mediatori”, come possono essere la gerarchia, i contratti, le procedure, la rete e il web, che ci “nascondono” almeno in parte ai nostri interlocutori. La performance del momento diventa l’unico criterio di misurazione e la soddisfazione, la crescita dei collaboratori… Bèh, coi tempi che corrono, bisogna imparare ad adattarsi…
Questa perdita di senso porta a vivere una serie di dilemmi: il tempo di lavoro (doveroso, spiacevole, quasi guerresco) e il tempo libero (ricco di possibilità, piacevole, rilassante, “questa sì che è vita”); lo spazio degli affari (performance e profitto a tutti i costi) e lo spazio dell’etica (solo quando te la puoi permettere, o le attività di beneficenza); le persone diventano un mezzo e il fine…e chi se lo ricorda più? ... Ora non c’è tempo, ce ne occuperemo un’altra volta.
Oltre alla formazione tecnica e a quella relazionale, occorre anche una “consapevolezza umanistica che arricchisce la creatività”, come la definisce Quadrio Curzio su Il Sole 24ore.
Occorrono quindi non solo competenze tecniche e relazionali, ma anche competenze personali, che consentano di esprimere al meglio le altre due: tutte e tre sono importanti, tutte e tre ci devono essere. Sia nella formazione scolastica, sia in quella professionale la prima delle tre viene presa in considerazione e più o meno valorizzata; se c’è anche la seconda, meglio! Come se potesse essere considerato valido un capo o un collaboratore che ha vaste conoscenze ma che è incapace di relazionarsi con gli altri capi, colleghi e collaboratori. Che è incapace di lavorare assieme ad altri e si comporta come se vivesse su un’isola deserta o in un mondo di pedine o di sacchi vuoti da riempire.
Ma questo non basta: che tipo di persona è quel lavoratore, quel manager, quel capo che non possiede competenze di tipo personale? Che non ha mai fatto i conti con le sue convinzioni, con i suoi valori? Che non è in grado di conciliare obiettivi e attività professionali con obiettivi e attività personali? Che ha un modestissimo repertorio emotivo e una modalità di pensiero contrappositiva (o…o…) invece che collaborativa (e…e…)? Che funziona solo per “reazione” al già accaduto, invece che per “progettazione sistemica” di scenari ricchi di prospettive? Che pratica le sottili arti della vendetta, scambiandole per strategie intelligenti? Che non conosce se stesso e si descrive solo secondo canoni stereotipati? Che è privo di resilienza e finisce per trasferire nelle sue modalità di lavoro e di relazione il suo stress e le sue risposte limitanti a ogni evento? Insomma che è privo di consapevolezza umanistica?
Spesso si riassume tutto questo nel termine “responsabilità” o magari “empowerment”. Ma secondo noi sarebbe forse più adatto il termine “generosità”, nelle relazioni e nell’ampiezza di vedute, nell’integrazione e nella capacità di fare fini distinzioni, nella riflessione e nella capacità di progettare, di sciogliere nodi e di esplorare ostacoli e opportunità.
Qualcuno, di fronte ai grandi progressi e alle straordinarie innovazioni della comunicazione per mezzo digitale, crede di poter affermare che è possibile non comunicare, solo tacendo sul web o usandolo per isolarsi alle relazioni umane dirette, faccia a faccia, ma in realtà noi comunichiamo sempre.
Primo perché non partecipare a una riunione, per esempio, o non rispondere a una mail dice molto di noi agli altri e scatena risposte, reazioni ed emozioni non indifferenti: e cos’è, se non comunicazione? Secondo perché, almeno noi con noi stessi, siamo in comunicazione continua.
Magari non ci ascoltiamo e con quali modalità e qualità di relazione lo facciamo, è poi tutto da vedere: anche in questo campo gli “analfabeti” non mancano.
Ma una cosa è certa: la qualità delle relazioni che ciascuno di noi intrattiene con se stesso da forma e diventa poi la qualità delle relazioni che ciascuno di noi intrattiene con le altre persone e con la realtà in cui vive. E alla fine di tutto il giro, ha un impatto anche sulle performances, ancor più se a lungo termine.
Troppo spesso la formazione si occupa solo di competenze tecniche e quando si occupa di competenze relazionali, molte volte lo fa ri-trasformando anche queste in competenze tecniche.
Certo, anche la comunicazione si nutre di tecniche, ma non hanno senso e non funzionano se non sono accompagnate da una relazione autentica.
Possiamo illuderci che non sia così, ma ciò non cambia i fatti.
Perché le competenze hard e quelle soft siano ricche, spendibili ed evolutive, occorre che siano sostenute da una relazione con se stessi veramente di valore: così anche la formazione è di valore e non una sequela di passaggi triti e scontati, in cui l’innovazione è costituita da effetti speciali che rincorrono la novità, in definitiva atti a nascondere una sostanza che scarseggia.
Vogliamo pensare a un manager professionista & persona, un manager ricco e generoso.